Cos’è necessario?
È necessario scrivere una domanda, e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto il curriculum dovrebbe essere breve.
E’ d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi e ricordi incerti in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati.
Conta più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza un perché.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli, cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore E il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto.
È la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
La storia, questa volta, è una poesia. Preziosa e rara. Quanto è raro che un premio Nobel per la Letteratura, dedichi il suo genio ad un fatto così poco poetico, com’è un curriculum vitae.
˝Essere˝ o ˝apparire˝ rappresenta da sempre uno dei dilemmi delle persone, in particolare di chi ricopre ruoli importanti nelle organizzazioni e nella società in genere.
Il problema, in realtà, è quanto del nostro ˝essere˝ vogliamo far apparire, nelle diverse situazioni e circostanze della vita e del lavoro. In questa spesso negata, ma, invece, ben radicata, dicotomia tra privato e professionale.
Uno dei momenti in cui questo equilibrio è più difficile da trovare è proprio quando dobbiamo descriverci. Perché qualcun altro possa, dalle nostre parole, da un nostro scritto o anche solo dal nostro atteggiamento, cogliere la vera essenza di ciò che siamo davvero: come persone, oltre ché come professionisti.
Spesso, in queste circostanze, il tempo che abbiamo a disposizione è poco, e ci resta la sensazione di non aver potuto dire abbastanza. Così come sempre troppo angusto ci appare lo spazio occupato, su fogli di carta un attimo prima immacolati, dal nostro curriculum. Dalla descrizione, in fondo, della nostra vita.
Ma non è un problema di tempo o di spazio: è un ˝problema di cuore˝.
Del nostro e di chi ci ascolta, o ci legge. Dipende dalla capacità che abbiamo di non impedire ai nostri ed agli altrui sentimenti di trasparire, o di rendersi percepibili, tra le parole o le righe.
Dalla nostra capacità di essere, e mostrarci, persone. Prima che personaggi.
Anche le aziende cominciano, per fortuna, a capire che le persone sono più importanti dei ruoli. Ed anche più simpatiche.
Che la nostra vita professionale sia da mediano, da centravanti o da estremo difensore, è accaduto, e potrà ancora accaderci, di doverla descrivere. Di dover scrivere il nostro curriculum.
Per necessità o per ambizione, per sfida o per spirito di avventura. Poco importa.
Importa, invece, se nel prossimo curriculum (il nostro, o quello di un altro tra le nostre mani), saremo capaci di scrivere, o di leggere, anche le cose che normalmente non si scrivono, o che normalmente non ci sforziamo di intuire, tra le righe o le parole.
Se saremo capaci di scrivere, o di leggere, anche dei figli non nati, e del perché delle cose.
Capaci di raccontare, o immaginare, i paesaggi, oltre agli indirizzi; e di raccontare, o intuire, ricordi importanti, altrimenti nascosti dietro date fisse.
Capaci di scrivere, o intuire, di cani e gatti, di amici e sogni. Cianfrusaglie che così bene sanno parlare di noi e del nostro passato.
Perché solo se siamo capaci di leggere il passato, possiamo intravedere i segni del futuro. Il nostro, e quello degli altri.
E il futuro, come ci ha ricordato Wislawa Szymborska, sarebbe molto meglio fosse legato al valore di una persona. Anziché al suo prezzo.
E capire il valore delle persone, anziché il loro prezzo è, quasi sempre, la parte più importante ed esaltante del nostro mestiere.
(*) Da ˝Gente sul ponte˝, di Wislawa Szymborska, premio Nobel 1996, Ed. Libri Scheiwiller, Milano, 1997.